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Virus e Ambiente

Una foto d’archivio della Foresta amazzonica dopo l’ennesimo incendio

Deforestazione e allevamenti intensivi. I danni all’ambiente fanno esplodere i virus. Per prenderci cura della nostra salute dobbiamo iniziare a difendere il pianeta

MARIO TOZZI

Se c’è una cosa che oggi non vogliamo proprio sentirci dire è che anche questa epidemia da Covid-19 dipenda dalle azioni scriteriate dei sapiens ai danni dell’ambiente. Ma, forse, dobbiamo iniziare a ricrederci, e riconsiderare anche altri casi recenti, come Ebola, Sars e Zika, ma pure H1N1 e Mers.

 Pubblicato il 4 marzo 2020

I ricercatori partono da una semplice considerazione, che il minimo comune denominatore di tutte queste patologie è indubbiamente la trasmissione animale. Il 70% delle Eid (Emerging Infectious Diseases, malattie infettive emergenti) deriva da un’interazione più o meno diretta fra animali selvatici, addomesticati e sapiens. In questo senso vanno tenuti in conto diversi fattori scatenanti e/o aggravanti. Per primo le alte densità di popolazione delle aree urbane: più sapiens in aree ristrette vuol dire più rischio di contagi. I nomadi cacciatori-raccoglitori, ovviamente, si ammalavano molto meno dei cittadini agricoltori e non sviluppavano certo epidemie. Ed è, peraltro sotto gli occhi di tutti, sebbene non inquadrabile scientificamente, che sia la provincia di Hubei, sia, vorrei dire soprattutto, la Pianura Padana sono regioni estremamente degradate dal punto di vista della qualità ambientale in generale e dell’aria in particolare. In Europa non c’è un’altra area così inquinata come la nostra. Una questione che va presa con le molle, ma che non andrebbe trascurata.

In secondo luogo, i cambiamenti di uso del suolo e l’intensificazione degli allevamenti intensivi, specialmente in regioni cruciali per la biodiversità, sono fattori che intensificano i rapporti sapiens-fauna domestica-fauna selvatica. Di particolare gravità è la deforestazione, necessario preludio a queste attività, come dimostra il caso del virus Nipah, comparso in Malesia nel 1998, e probabilmente legato all’intensificarsi degli allevamenti intensivi di maiali al limite della foresta, dove cioè si disboscava per ottenere terreni a spese dei territori di pertinenza dei pipistrelli della frutta, portatori del virus. E sia Sars che Ebola sono da ricondursi a pipistrelli, sia cacciati che comunque conviventi con i sapiens nelle aree metropolitane, oltre che a scimmie, preda di bracconaggio e vendita illegale.

Lo spillover (il salto di specie) è sempre possibile, ma viene favorito dove ci sono attività umane che impongono grandi modifiche ambientali, per esempio impiantare allevamenti intensivi e monoculture, come le palme da olio, a spese della foresta tropicale, cioè proprio dove la fauna selvatica è più importante per numero di specie e di individui e dove, di conseguenza, i patogeni sono più presenti e importanti. Quando vediamo arrivare storni e gabbiani nelle nostre città, non ci sorprendiamo forse poi più di tanto, ma bisogna considerare che questi animali portano con loro un corredo di microrganismi che andrebbe conosciuto. E la loro migrazione è dovuta esattamente alle stesse cause: crescita delle aree metropolitane, disboscamenti selvaggi, deserti agricoli, caccia.

Il commercio illegale della fauna selvatica è un terzo motivo di preoccupazione, e non deve essere sottovalutato. Nel caso di Covid-19 è il caso del pangolino cinese, le scaglie della cui “corazza” lo rendono ambito dai bracconieri. Fatte di cheratina, come le nostre unghie, secondo diverse superstizioni sarebbero una panacea per molti mali e vengono utilizzate, come le ossa di tigre e il corno di rinoceronte, dalla medicina orientale. Inoltre la carne di pangolino viene considerata da alcune comunità locali una vera e propria prelibatezza: ecco perché oggi questo mammifero, mite e innocuo, è divenuto l’animale più contrabbandato al mondo. In Cina la sottospecie è declinata del 90% dagli anni Sessanta, proprio a causa del commercio illegale. Il genoma del virus rinvenuto nei pangolini (che si suppone essersi sviluppato originariamente nei pipistrelli) è quasi identico al Coronavirus 2019-nCoV rinvenuto nelle persone infette. Sembra quindi che il commercio illegale di animali selvatici vivi e di loro parti del corpo sia veicolo per vecchie e nuove zoonosi, aumentando il rischio di pandemie i cui contraccolpi sono sotto gli occhi di tutti. In particolare, non è la prima volta che si sospetta che l’ospite intermedio di una malattia infettiva sia un animale vivo venduto in un mercato cinese: circa 17 anni fa, la sindrome respiratoria acuta grave (Sars), è comparsa in un mercato cinese che vendeva civette delle palme.

A questo dobbiamo aggiungere la caccia, spinta a livelli insostenibili, e tutta una serie di pratiche tese alla massima resa dei terreni agricoli che impoveriscono la ricchezza della vita e abbattono le difese naturali degli ecosistemi. Varrà anche la pena di ricordare che il cambiamento climatico è un incubatore perfetto per le uova delle zanzare anofeli, che si riproducono oggi a ritmi impressionanti, colonizzando regioni che mai avevano conosciuto prima i deliri della malaria. Lo stesso accade con l’Aedes aegypti, la zanzara che trasmette dengue e febbre gialla, che, già da qualche anno, si spinge fino a oltre i 1300 metri in Costa Rica e, addirittura ai duemila in Colombia, Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda.

Tutto questo sotto la nostra responsabilità. Però, qui c’è anche parte della soluzione del problema: basterebbe infatti ridurre l’intensità e il livello di quelle attività distruttive per gli ecosistemi per ridurre, di conseguenza, i rischi di pandemie e, anzi, irrobustire le nostre difese. Purtroppo, però, nonostante esistano modelli di previsione dell’insorgenza di epidemie abbastanza precisi, a questi studi non vengono dedicate risorse in tempo di pace, salvo poi rimpiangerlo quando le malattie scoppiano. Fermare la distruzione degli habitat naturali comporta una revisione del nostro modello di sviluppo, solo che stavolta a indicarla non sono i soliti ambientalisti, ma i medici.

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