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Economia e Società

Il «populismo industriale» e i suoi effetti negativi: i consumi hanno progressivamente messo da parte la centralità del lavoro: nella sua dimensione economica, professionale e esistenziale.

MAURO MAGATTI

Pubblicato il 28 gennaio 2020

Il disagio che si registra in molta democrazia occidentali — che si traduce politicamente nella crescita dei movimenti populisti — è il sintomo delle difficolta che le società contemporanee stanno incontrando nell’adeguarsi ai mutamenti del modello produttivo. Veniamo da una stagione — efficacemente descritta da Bernard Stiegler col termine di «populismo industriale» — dove i consumi hanno progressivamente messo da parte la centralità del lavoro: nella sua dimensione economica (con la riduzione della quota di valore aggiunto distribuito al lavoro); professionale (con l’instabilità e la precarizzazione diffusa) e esistenziale (con la fine, salvo che per pochi fortunati, della capacità del lavoro di essere luogo privilegiato di realizzazione e partecipazione).

La frattura del 2008 sta determinando un aggiustamento profondo che si produce lungo due principali direttrici. Dietro la spinta di una digitalizzazione che diventa sempre più capillare e profonda, si accentua il contenuto cognitivo di molte attività lavorative. Il panorama delle professioni sta cambiando e mentre alcune spariscono, altre ne nascono. Con un differenziale importante in termini di competenze (digitali ma non solo). Un processo destinato a cambiare in profondità il modo di lavorare. Perché – come mostra una recente ricerca del McKinsey Global Institute – se è vero che solo una quota limitata di lavori sarà completamente sostituita, oltre il 60% delle attuali attività professionali è destinato a subire profonde trasformazioni. La seconda direttrice é il l’impatto territoriale del mutamento in corso. I nuovi lavori a più alta competenza si concentrano nelle aree metropolitane e comunque nelle regioni a elevata integrazione funzionale. Ciò concretamente significa che mentre alcune aree crescono (in Italia Milano e buona parte, anche se non tutto il nord), altre declinano, rischiando in alcuni casi una vera e propria desertificazione economica. L’aggiustamento al nuovo modello economico sta producendo dei vincitori (persone a medio e alta qualificazione per lo più nelle grandi città) e dei perdenti (occupati dequalificati e precari per lo più concentrati nelle periferie e nelle città di provincia). Con l’inevitabile conseguenza della crescita di forti sentimenti reattivi – come mostra con evidenza la geografia dei recenti andamenti elettorali di numerosi paesi avanzati.

L’Italia soffre in maniera particolare questa trasformazione perché ha vissuto nel modo più becero la fase del populismo industriale.In primo luogo, paghiamo il ritardo accumulato dal punto di vista della formazione, sia a livello tecnico che universitario. La qualità – umana e non solo professionale – della persone oggi è un fattore indispensabile per poter sperare di prendere parte ai processi economici del XXI secolo. In secondo luogo, il Paese soffre della mai risolta questione territoriale. Oggi la penisola ê più disgregata di 30 anni fa. E i problemi non toccano solo il sud, dove la situazione era e rimane molto grave; ma anche le tante zone interne e le moltissime città di provincia che non riescono a entrare nei circuiti della crescita. In terzo, luogo, quella italiana rimane una economia basata su una fitta rete di piccole e medie imprese, vero punto di forza della nostra economia. Il problema è che, a fianco dei campioni del Made in Italy – che il mondo intero ci invidia – sono ancora troppe le realtà che si limitano ad una strategia di mera sopravvivenza, con scarsa innovazione e pochi investimenti. Dove il lavoro dequalificato, instabile e in nero – insieme all’evasione – permette di galleggiare senza però nessuna prospettiva di futuro. Un modello basato sullo sfruttamento (anche ambientale) che l’arrivo dei 5 milioni di migranti oggi residenti nel nostro paese (vero e proprio esercito industriale di riserva) ha favorito.

L’aggiustamento alle nuove condizioni della concorrenzaè difficile ovunque. Rimane il dubbio che sia possibile associare tutti i gruppi sociali e tutti i territori al nuovo modello economico. Un obiettivo che richiederebbe politiche coraggiose e lungimiranti che si scontrano però con gli interessi di breve termine, le resistenze sociali, le fatiche e la rabbia di buona parte della popolazione. Persino laddove ci sono condizioni più favorevoli, le difficoltà sono evidenti.

È chiaro allora perché per l’Italia si tratta di anni particolarmente delicati. Siamo in ritardo e soprattutto siamo presi da un fatalismo depressivo che trova nel blocco demografico il punto di caduta più grave.Uscire da questa spirale negativa non è facile. Per riuscirci occorre una nuova classe dirigente (non solo politica, ma anche industriale, culturale, sindacale…) capace di dire con franchezza a tutto il paese (vincitori e vinti insieme) che nessuno si salva da solo.

Il nuovo modello di sviluppo che, pur tra mille contraddizioni, sta nelle pieghe della trasformazione in corso (delineato di recente anche da «il manifesto di Assisi») – si porta dietro una potenzialità importante: un’economia più avanzata ha bisogno di una società più integrata. Ad oggi, ciò si verifica solo per alcuni e in alcuni luoghi. Il problema è far sì che accada ovunque e per tutti. La via per battere il populismo politico é lasciarsi alle spalle il populismo industriale, mettendo al centro il lavoro e la qualità delle persone e dei territori.

 

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