La grande sfida
Una delle maggiori banche del mondo, il Credito Svizzero, ci aiuta a capire il “complesso” atteggiamento del mondo degli affari nei confronti delle questioni ambientali.
PINO CONSENTINO
Nel 2009 l’istituto bancario svizzero pubblicava uno studio intitolato “Acqua: la prossima sfida”. La sfida si può riassumere in poche parole: l’offerta d’acqua è stabile, mentre la domanda è cresciuta, nell’ultimo secolo, di 6 volte [più del doppio – cioè 12 volte – nel XX secolo, secondo altre fonti]. Il declino dei livelli dell’acqua nelle falde sotterranee ne è l’illustrazione più forte. Lo studio cita tre acquiferi, Ogallala (USA), quello sotto la pianura della Cina settentrionale e quello indiano del Gujarat settentrionale. Si tratta di riserve d’acqua di enormi dimensioni. Ogallala si estende su 450.000 kmq, una volta e mezza l’Italia, e contiene quasi 3.500 miliardi di mc d’acqua purissima. Attualmente si sta riducendo al ritmo di 26 miliardi di mc all’anno, poiché dai suoi pozzi dipende la fertilità delle grandi pianure centrali degli Stati Uniti. Il livello dell’acquifero cinese cala di 3 metri all’anno, ora i pozzi debbono scendere a 1.000 metri di profondità. L’India ottiene acqua da 21 milioni di pozzi, l’acquifero del Gujarat settentrionale scende di 6 metri all’anno. Queste e altre convincenti evidenze conducono alla conclusione che: “The status quo is unsustainable” (non c’è bisogno di tradurre, credo).
I PREZZI DELL’ACQUA HANNO SUPERATO L’INFLAZIONE
Lo studio constata che i prezzi dell’acqua sono cresciuti più dell’inflazione, mentre gli investimenti sono rimasti “sorprendentemente” deboli (surprisingly weak). Quindi ecco il consiglio per gli investitori: investite nelle imprese che gestiscono i servizi idrici, specialmente nei “mercati emergenti”, che sono più aperti all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua. L’utile è garantito, e stando così le cose lo sarà sempre di più. Il Credit Suisse non si chiede se esista un nesso tra l’alta remunerazione del denaro investito nell’acqua e le situazioni che esso stesso denuncia.
INVESTIRE NELL’ACQUA
il 70% dell’acqua dolce serve per l’agricoltura, il 20% per l’industria e meno del 10 % per gli usi domestici. Il più grande spreco di acqua proviene dall’agricoltura industriale, che provoca anche la progressiva erosione della fertilità dei terreni. Nei PVS (Paesi in Via di Sviluppo) l’accaparramento dell’acqua si associa a quello della terra (water and land grabbing), per opera di grandi operatori dotati di ingenti risorse finanziarie. La figura qui sopra illustra la situazione del pianeta rispetto alla risorsa acqua.
IL SERVIZIO PEGGIORA, MA GESTORI SEMPRE PIÙ RICCHI
Qui vorremmo piuttosto rispondere alla domanda: “lo sfruttamento delle risorse idriche (che sono un bene comune di tutti noi) ai fini di profitto per pochi, con il rischio molto concreto e vicino di esaurimento della risorsa, è una piaga che affligge solo le sfortunate, indifese popolazioni afroasiatiche e latinoamericane? Solo là l’acqua diventa sempre più cara, la risorsa viene sprecata, la manutenzione dell’infrastruttura (acquedotti, impianti di potabilizzazione, reti fognarie, depuratori) trascurata, a fronte di utili e dividendi sempre più ricchi per i gestori privati? E a fronte di un controllo del territorio da parte di soggetti privati che si sostituiscono alle autorità democraticamente elette?
Water grabbong e land grabbing con i corollari di impoverimento e dipendenza da speculatori senza scrupoli per le più elementari necessità vitali possono sembrare realtà lontane, situazioni che mai ci troveremo a vivere. Ma chi avrebbe immaginato venti anni fa una tale diffusione del lavoro precario? Anche per l’acqua de te fabula narratur. Lo spreco sconsiderato della risorsa, che pure in Italia non abbonda, è altissimo nel nostro paese. E la nostra città, dove il servizio idrico è privatizzato da quasi 25 anni, non brilla, anzi si colloca negli ultimi posti. Questa immagine tratta da LEGAMBIENTE, Ecosistema urbano 2019, è abbastanza eloquente, considerando che le perdite idriche in Germania ammontano al 6,5%, in Inghilterra e Galles al 15,5% e in Francia al 20,9%.
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