Alberi per lo spirito
Le “Constitutiones camaldulenses”, sull’importanza spirituale degli alberi e sulla loro gestione, sono uno dei primi codici di selvicoltura sul rapporto tra uomo e natura.
FABIO MARZANO
Potremmo definirle le «sante» regole del bosco: le Constitutiones camaldulenses sono una serie di precetti sull’importanza spirituale degli alberi e sulla loro gestione, scritti tra l’XI° e il XIII° secolo dai monaci eremiti di Camaldoli in Toscana. È uno dei primi codici di selvicoltura in cui si affronta il rapporto tra uomo e natura di cui rimanga traccia; e ancora oggi offre qualche suggerimento per una gestione sostenibile delle foreste. Tanto che l’Unesco ha chiesto di candidarlo a «patrimonio immateriale universale dell’umanità». I manoscritti che raccontano la regole del bosco dei Camaldolesi sono stati recuperati e ordinati dal Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, in collaborazione con il Collegium Scriptorium di Fonte Avellana in un progetto durato quattro anni.
«Le pratiche che i monaci hanno seguito per oltre otto secoli – spiega Raoul Romano, il ricercatore del Crea che ha coordinato lo studio avevano vincoli e criteri per il rispetto dell’ecosistema. Interventi come tagli mirati per assicurare la rigenerazione dell’ambiente, o le pacciamature per proteggere le piante dai danni provocati dagli animali, erano indirizzati a garantire eternità alla foresta, così come per il regno di Dio». In assenza del deserto, per gli eremiti medievali in Europa il bosco era l’habitat privilegiato per ascesi e preghiera. Le regole del bosco dei Camaldolesi, apparse per la prima volta nel 1080 sotto forma di Consuetudines, erano dettate soprattutto da esigenze spirituali. «Sette alberi menzionati nella Bibbia – prosegue Romano – sono descritti secondo le proprietà botaniche e quelle simboliche della vita ascetica. Il cedro, per esempio, è associato alla sincerità; il biancospino alla conversione; il mirto alla sobrietà; l’olivo alla misericordia; l’abete alla meditazione; l’olmo alla pazienza. E il bosso, alla perseveranza».
Più avanti, col tempo, le cose cambiano. E i monaci, oltre al valore spirituale, iniziano a badare anche a questioni più terrene. «Con il passare degli anni l’approccio alla gestione delle risorse forestali si è modificato arricchendosi e adattandosi alle necessità delle popolazioni locali e alle esigenze economiche che il periodo storico richiedeva. Assecondando i processi naturali di rigenerazione del bosco, i monaci camaldolesi hanno lentamente sostituito il faggio con il solitario abete bianco, simbolo di meditazione e specie apprezzata sul mercato del tempo, soprattutto nei cantieri navali di Pisa e Livorno e per la costruzione di solai e tetti», prosegue il ricercatore.
Con l’abete bianco di Camaldoli, ad esempio, è stato costruito il popolare quartiere di Santa Croce a Firenze. Al massimo della sua espansione, il monastero di Camaldoli contava su 11mila ettari nella sola provincia di Arezzo, terreni che si spingevano fino al capoluogo toscano. La contabilità dei prelievi era rigorosa, come dimostrano i conteggi arrivati fino a noi: ogni albero abbattuto veniva sostituito con un esemplare più giovane coltivato in vivaio. La tecnica di taglio era quella «a rate», un metodo molto simile paragonabile con quello che oggi si chiama «a buche», e che garantisce spazi lasciati all’evoluzione naturale. «Oltre ad avere un buon fiuto per gli affari – è la conclusione di Raoul Romano – i monaci di Camaldoli hanno anche definito un nuovo equilibrio ecologico, custodito e mantenuto nei secoli con interventi colturali, tagli, semine e piantagioni fino a delineare quel paesaggio da tutti oggi riconosciuto come un patrimonio ambientale unico. La loro continua azione di conservazione dell’abete bianco, prima per fini “spirituali” poi economici, ha permesso lo sviluppo di un ecosistema stabile a elevata valenza naturalistica e paesaggistica ancora oggi presente e vitale».
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