I cellulari e la nostalgia dei mercenari
La violenza ha una voce antica. Il rumore della folla che reclama morte e sangue arriva dalle arene dei giochi gladiatori, dagli spalti delle città, dagli eserciti contrapposti.
Vedere la sofferenza degli altri, il loro dolore e la loro paura è una suggestione ipnotica e brutale. Ci sono donne che si alimentano di questo orribile piacere e, a centinaia, per giorni, godono dello strazio delle carni e degli animi sedute davanti alla ghigliottina. Sono diventate categoria morale, le tricoteuses, e mentre la lama si abbatte ripetitiva continuano il proprio lavoro a maglia con disinvoltura domestica, riempiendosi l’animo della sofferenza e dello strazio altrui.
Oggigiorno non c’è avvenimento che subito non richiami una schiera di tricoteuses a valutare, giudicare, condannare, macellare.
I social network diventano una cloaca e non c’è avvenimento che non solleciti gli animi a giudizi affrettati, a sentenze sommarie.
Sul problema dei migranti abbiamo dimenticato la pietà, preferendo la giustizia da bar, trasformando il tifo politico in un metro di valutazione.
Cinque anni fa osservando la foto che pubblichiamo ero rimasto colpito dal gesto di cercare un contatto con il cielo per rimanere legato alla terra. Avevo trovato questa foto, pubblicata con relativo articolo da La Stampa, il manifesto simbolo di un’umanità dolente e addolorata. Da allora gente improvvisata, senza studio, senza cuore si è lanciata in un refrain maleodorante sui migranti, i loro guadagni, la presenza ingiustificata di cellulari.
Ma non è questo il problema. Un cellulare costa, ma è quasi nulla rispetto al prezzo di un passaggio su un barcone. In un cellulare ci sono i social network: Facebook su cui viaggia l’informazione per sapere che cosa accade dove si va o che cosa sta succedendo a casa, Viber che permette di chiamare i famigliari a costo zero, WhatsApp per chiamare, chattare, inviare foto, Skype per chiamare e videochiamare.
Da analisi e studi mirati risulta che la maggior parte dei migranti non ha amici italiani su Fb e che spesso questo mezzo viene utilizzato solo per approfondire il sistema sociale verso il quale i migranti stanno andando. Insomma per conoscere meglio il loro futuro prossimo.
In questo foto io ho letto tutta la nostalgia del mondo, vedere quelle braccia alzate, mi ha dato l’idea della ricerca di un ultimo saluto verso casa, come se i propri affetti fossero lì sulla riva e continuassero a sbracciarsi mentre loro si stavano allontanando.
Forse queste tricoteuses da tastiera, non hanno mai fatto i conti con la nostalgia.
La nostalgia comincia sui campi di battaglia.
A rilevarlo è uno studente di medicina dell’Università di Basilea, Johannes Hofer, il quale, dedicò a questo fenomeno una tesi, pubblicata nel 1688 con il titolo “Dissertazione medica sulla nostalgia”. Cosa aveva notato Hofer? Che quello che era stato uno dei più agguerriti, micidiali, competitivi eserciti per quasi due secoli, una micidiale arma da guerra a pagamento, capace di stragi e combattimenti furiosi, dopo un po’ che stava lontano dai Cantoni della Svizzera, si ammalava. Deperiva, si spegnava, sovente arrivava al suicidio. E da medico, crea una parola “tecnica” che racchiude tutto questo basandosi su due termini greci: nostos ritorno e algos malattia. Alla mattina capaci di infilzare un neonato sulla picca, ma alla sera si coprivano di lacrime e singhiozzi. La nostalgia è soprattutto una malattia da uomini. Prevalentemente soldati. I nostri picchieri svizzeri in giro per l’Europa del Seicento avevano una canzone dolente e dolcissima – il “Ranz des vaches” – che ricordava loro la patria d’origine. Così struggente da dover essere proibita pena la morte, poiché cadevano in un’inesauribile malinconia che li snervava. Se canti e ti immalinconisci, mi rattristi anche il resto della truppa e perciò ti mando a morte. Ma i guerrieri, lontani da casa, continuano a disperarsi: nel 1733 un generale russo avverte che i soldati ammalati di nostalgia sarebbero stati sepolti vivi e un medico francese, nel 1790 adottò una cura risolutiva: a tutti i militari sofferenti di nostalgia applicava un ferro rovente sull’addome. Da allora le guerre, le migrazioni sono proseguite, gli uomini hanno continuato a morire come prima e come prima a soffrire di nostalgia. Perché qualunque sia la cura, spauracchio o minaccia, il dolore per la lontananza da casa non si può fermare. Soprattutto se sei giovane e vai verso l’ignoto, la paura, la morte.
Così da sempre la nostalgia ferisce l’animo e uccide il corpo. In Italia colpisce due volte, quando ti allontani da casa e quando qualcuno che aspetta il caffè davanti al suo computer si permette di giudicare perché, dopo migliaia di chilometri nel deserto, un viaggio in mare che ha decimato i tuoi compagni, tu stai chino su un cellulare. Cerchi una foto che ti dia forza, cerchi un messaggio che ti attenui il dolore: i volti dei tuoi cari, la casa che hai lasciato, i compagni morti. Magari anche le indicazioni per cercare un documento o come si dice, nella nuova lingua: ”Vengo in pace, cerco un futuro”.
Riferimenti e fonti: “Nostalgia. Storia di un sentimento” (Cortina), antologia a cura di Antonio Prete; Nostalgia, la nostra grave malattia sociale. Come siamo diventati il popolo incattivito e passatista descritto dal Censis. Un libro aiuta a capire di Antonio Gurrado; https://www.ilfoglio.it/cultura/2018/03/02/news/censis-nostalgia-181673; swissalpinemusic.ch/ita/swissinfo2644.html; Wikipedia
Il vincitore del World Press Photo: “Tutti noi, migranti in cerca di segnali”
È dell’americano John Stanmeyer la “foto dell’anno” scattata a Gibuti: «Un’immagine può servire a capire il fenomeno e ad affrontarlo meglio»
«Io sono quell’uomo col cellulare alzato nella notte, in cerca di un segnale per parlare con la sua casa. Tutti siamo quell’uomo, perché tutti prima o poi siamo migrati, nella storia delle nostre famiglie sulla Terra. La mia speranza è che queste immagini ci aiutino a capirlo, e quindi anche ad affrontare alle radici i problemi da cui nasce il fenomeno dell’emigrazione di massa».
John Stanmeyer, fotografo di National Geographic e altre riviste prestigiose come Time, celebra così il premio World Press Photo 2014, che ha appena ricevuto per uno scatto a Gibuti. Mostra alcuni uomini sulla spiaggia, che alzano i loro telefonini illuminati nella notte, sperando di cogliere un flebile segnale.
Come è nata questa fotografia?
«Il mio collega Paul Salopek ha cominciato per National Geographic un progetto chiamato “Out of Eden”. Nell’arco di sette anni percorrerà a piedi circa 21.000 miglia, per rifare la strada della migrazione degli uomini cominciata 60.000 anni fa in Africa. In pratica il giro del mondo, seguendo le tracce di questo spostamento dall’Etiopia alla Terra del Fuoco. Io vado con lui per riprendere le immagini. Alla fine del primo tratto, siamo arrivati a Gibuti. Sono andato sulla spiaggia, per cercare spunti, e ho visto questi uomini con i cellulari alzati nella notte. Ho chiesto chi fossero, e la mia guida mi ha spiegato che erano migranti. Per contattare i parenti o gli amici lasciati a casa, compravano schede illegali somale e poi andavano a chiamare. Lo facevano di notte, sulla spiaggia, perché in quel momento il segnale è un po’ più forte. Ho pensato che dovevo subito fotografarli».
Perché?
«In quell’immagine c’era tutto: il fenomeno mondiale delle migrazioni, la povertà che sta alle sue spalle, la disperata speranza di trovare una nuova vita migliore, e la disperata volontà di non perdere gli affetti lasciati indietro».
Lei dice che si sente come quegli uomini: perché?
«E’ capitato anche a me, decine di volte, di girovagare col mio cellulare in cerca del segnale per parlare con casa».
Lei però sapeva che alla fine del suo viaggio sarebbe tornato a casa, mentre questi uomini forse la stanno lasciando per sempre.
«Esatto, e proprio questo deve farci riflettere. Siamo uguali a loro perché prima o poi siamo emigrati tutti. La mia famiglia è andata dall’Austra agli Stati Uniti, quella di mia moglie viene dalla Grecia. Il progetto di Paul Salopek dimostra che questo fenomeno è vecchio quanto il genere umano. Alla sua base c’è il bisogno elementare e comune a tutti di trovare una vita migliore. Noi dovremmo capirlo e cercare di risolvere le cause profonde delle migrazioni attuali, invece di demonizzarle».
Quali sono, secondo lei?
«Principalmente la povertà e la guerra, che si alimentano a vicenda, perché una provoca l’altra. Poi io mi sono occupato molto anche delle malattie, come la malaria o l’Aids, che non conoscono confini o passaporti, ma colpiscono soprattutto dove l’indigenza e l’ignoranza sono più forti. Durante la primavera araba, ma anche prima, ho seguito il tema del costo e della mancanza del cibo, che provoca reazioni violente. Sono tutte questioni che si trovano alla radice del problema delle migrazioni».
Non facciamo abbastanza per risolverle?
«Le abbiamo riconosciute e ci stiamo adoperando. Ad esempio i progressi compiuti dall’Africa sono straordinari, come in fondo dimostra anche l’uso della tecnologia per comunicare, che si vede nella mia foto. Però chiaramente non basta, anche perché spesso la paura dell’altro prevale sulla volontà di aiutarlo».
Dovremmo puntare ad accogliere meglio gli emigranti, o migliorare le condizioni nei luoghi da dove provengono?
«E’ una domanda complessa. Di sicuro la soluzione migliore sarebbe che tutti vivessero così bene, da non sentire la necessità di spostarsi per cercare altro. Questi movimenti, però, sono parte della storia del genere umano, ed è difficile pensare che finiranno».
Lei cosa farà per dare il suo contributo?
«Continuerò a documentarli, perché la soluzione dei problemi comincia dalla loro comprensione».
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