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Chernobyl, lezioni di vita

David MacMillan, l’autore di questa foto ha visitato Chernobyl una ventina di volte e ha testimoniato i cambiamenti avvenuti dopo l’incidente nucleare

La catastrofe nucleare ha messo a repentaglio solo la specie umana: per alberi e animali, attorno alla centrale esplosa nel 1986 c’è un’oasi di biodiversità

SABRINA ROSSI

“Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno la più intelligente. Sopravvive la specie più predisposta al cambiamento”. Charles Darwin

Sono trascorsi ben 33 anni dal tragico disastro nucleare di Chernobyl, un incidente che scatenò una nube radioattiva cinquecento volte più potente di quella prodotta dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Tutta l’area che circonda la centrale è stata definita zona di esclusione (Exclusion Zone) proprio per la sua inabitabilità causata dall’elevato livello di radiazioni.

Ma si può ancora parlare di città fantasma? Nonostante i numerosi casi di tumore provocati dall’elevata radioattività, piante e animali danno forti segnali di vita.

FANTASMI E NUOVE FORME DI VITA

Ancora oggi la situazione è molto critica, ma non troppo. Infatti, flora e fauna selvatica (lupi, cervi, orsi, cinghiali, castori, gufi, …) popolano la zona di esclusione. Fatta eccezione per gli alberi della Foresta Rossa, ovvero pini che si trovavano a circa 4 chilometri dalla centrale e che morirono dopo l’esplosione, numerose specie di betulle e pioppi riuscirono a sopravvivere agli elevati livelli di radioattività.

Ma come è possibile che le radiazioni non siano letali per loro come per l’uomo?

Come si è potuto notare, anche nelle aree maggiormente colpite, la vegetazione si è ripresa nell’arco di tre anni.

La spiegazione più attendibile è stata fornita da Stuart Thompson su The Conversation, secondo cui le particelle radioattive distruggono la struttura delle cellule o compromettono la loro funzionalità. Se le parti di una cellula vengono danneggiate, esse possono essere sostituite, ma non il loro DNA. Livelli radioattivi elevati portano all’alterazione del DNA e alla morte delle cellule. Livelli più bassi, invece, possono provocare mutazioni del DNA alterando così la funzione cellulare e causando lesioni cancerose.

GLI ALBERI SI DIFENDONO CON LE PROTEINE

La proliferazione incontrollata di cellule cancerose in corpi rigidi e specializzati, come negli animali, può essere letale. In corpi più flessibili, come le piante, le aspettative di vita sono decisamente più elevate. Dato che non hanno la capacità di muoversi, sono costrette ad adattarsi al clima ed alla luminosità del luogo in cui sono collocate e non avendo una struttura ben definita, la creano col tempo allungando lo stelo o le radici.

Per questo motivo le piante, rispetto a diverse specie animali che nella zona di esclusione hanno vita più breve, sono in grado di adattarsi generando nuove cellule e nuovi tessuti e sostituendo quelli morti. Oltretutto le cellule cancerose non riescono a proliferare come negli animali, grazie alle rigide pareti che costituiscono le cellule delle piante.

Un altro fattore di notevole importanza per la loro sopravvivenza e resistenza alle radiazioni consiste nella loro capacità di produrre proteine per difendere il proprio DNA e riparare le cellule da eventuali danni.

SOPRAVVIVE LA SPECIE MUTANTE

Come si spiega dunque la presenza di diverse specie animali in zone con alti livelli di contaminazione? La risposta è semplice: anche nel mondo animale esistono specie mutanti.

Secondo uno studio di Timothy Mousseau, professore di scienze biologiche dell’Università del South Carolina, molte specie animali e microbi hanno sviluppato una “capacità di tollerare o di evitare del tutto gli effetti di queste radiazioni”.

Scopo di questo studio è quello di comprendere come gli astronauti potranno sopravvivere nelle esplorazioni future resistendo alle radiazioni cosmiche osservando i comportamenti e i mutamenti di alcune specie dopo la catastrofe nucleare del 1986.

Dal 2000 Mousseau si reca regolarmente nella zona di esclusione attorno alla centrale di Chernobyl per osservare come centinaia di specie reagiscono nell’ambiente in cui vivono. In particolare, ha potuto notare come le ragnatele tessute all’interno di alcune case abbiano forme irregolari e con grandi buchi. Ben presto Mousseau si è reso conto che non solo i comportamenti di alcune specie stavano cambiando, ma anche le specie stesse.

Osservando le cimici rosso nere in zone di alte radiazioni ad esempio, i loro disegni sul dorso appaiono mutati. Altre specie, tra cui uccelli e batteri, hanno sviluppato una forma di resistenza alle radiazioni.

“Credo che tra i geni umani – afferma Mousseau – ci siano i segreti dei meccanismi biologici per resistere o tollerare gli effetti delle radiazioni. Il segreto sta nell’individuare quali sono questi meccanismi e nel riuscire ad attivarli o potenziarli in qualche modo”.

La presenza di specie vegetali e animali nella zona di esclusione a Chernobyl è aumentata significativamente, anche se la loro vita è più breve. L’assenza dell’uomo costituisce un vantaggio per la loro prosperità, lottando ogni giorno per resistere al pericolo radioattivo.

Nonostante il disastro nucleare ed i gravi danni che si sono susseguiti, molte specie si sono riprese più di prima.

La natura ha vinto.

 

IL DISASTRO, LA MORTE, LA SPERANZA

 

Era il 26 aprile 1986, alle ore 1.23, quando la catastrofe nucleare più grave della storia colpì la centrale di Chernobyl, in Ucraina.

A causa di violazioni di norme ed errori prodotti dal personale tecnico e dirigenziale, durante un “test di sicurezza”, il nocciolo del reattore numero 4 subì un aumento anomalo della potenza fino a provocare la sua esplosione. Di conseguenza, un grossa nube di materiale radioattivo raggiunse inizialmente vaste aree dell’Ucraina, Bielorussia e Russia; poi coi venti le particelle radioattive, di minori livelli di contaminazione, giunsero anche in Finlandia, Scandinavia, Italia, Francia, Germania, Svizzera, Austria e Balcani.

Fu un disastro colossale. 65 morti ufficiali per l’esplosione, 4.000 casi di tumore alla tiroide in Bielorussia, Ucraina e Russia soprattutto di età inferiore ai 14 anni attraverso il latte, 336.000 persone vennero evacuate, una vasta area attorno alla centrale è diventata zona di esclusione per l’elevato livello di radioattività.

Subito dopo l’incidente, venne costruito un sarcofago in cemento in modo da coprire tutti i resti ed i materiali contaminati. Questo contenitore però non è permanente e ogni 30 anni deve essere sostituito per poter contenere in sicurezza la nube radioattiva. L’ultima volta è stato sostituito il 29 novembre 2016.

La città maggiormente colpita e più vicina al disastro nucleare, si parla di 3 chilometri di distanza, è Prypjat. Del tutto inabitata, fantasma.

Fonti e riferimenti

Dalla biodiversità una speranza

Fabrizio Rondolino • 10 luglio

Nella quarta puntata di «Chernobyl» (un piccolo capolavoro sulla stupidità criminale della
burocrazia totalitaria) c’è una lunga sequenza dedicata ad una squadra di decontaminazione cui è stato assegnato un
compito spaventoso: uccidere e seppellire sotto una colata di cemento tutti gli animali
presenti nell’area, perché contaminati dalle radiazioni. Bacho, il caposquadra, è un reduce
dell’Afghanistan e conosce l’orrore della guerra, ma ciò nondimeno è sconvolto: Dovete
ucciderli con un solo colpo, è un ordine – scandisce ubriaco di vodka –. E vi ammazzo se li
fate soffrire». Questo accadeva nel maggio del 1986. E poi? Che cosa è successo negli
anni successivi? Ci sono animali a Chernobyl trentatré anni dopo l’esplosione?
Chernobyl, per quanto possa suonare impossibile, è oggi una delle oasi naturali più
ricche di biodiversità del pianeta: è, letteralmente, un paradiso terrestre. Peter Hayden, un
documentarista neozelandese, nel 2007 è entrato nella zona contaminata, dove dal 1986
non vive più un solo umano, e ha raccontato la storia di una gatta di tre anni e dei suoi
micetti, di un giovane lupo solitario che finalmente trova la sua compagna, di due cuccioli
di orso che esplorano le case abbandonate… e poi cervi e cavalli selvatici, aquile e
cinghiali, alci e civette, castori e linci, insetti multicolori e vegetazione lussureggiante. Il
documentario si intitola «Chernobyl Reclaimed: An Animal Takeover» e merita davvero di
essere visto. Tre anni fa un inviato del National Geographic ha compiuto un viaggio
analogo e ha raccontato con uguale meraviglia l’esplosione della vita animale intorno alla
centrale che tuttora emette radiazioni. Come è possibile?
La scomparsa dell’uomo ha significato la scomparsa dei pesticidi, dei gas di scarico e
di ogni altra forma di inquinamento, nonché dei cacciatori e delle automobili, migliorando
drasticamente, nel giro di pochi anni, la qualità dell’ambiente e le opportunità di vita. E
questo spiega il ripopolamento impetuoso della fauna selvatica, tranne che per un
dettaglio: la radioattività. Gli studiosi non hanno una spiegazione certa, ma l’ipotesi più
probabile è che l’attesa di vita degli animali sia troppo breve per consentire lo sviluppo di
cellule tumorali; in aggiunta, gli animali si riproducono molto più rapidamente di noi e
dunque, in assenza della pressione antropica, ristabiliscono senza difficoltà l’equilibrio
eventualmente intaccato da morti premature. Infine, non sono state rilevate mutazioni
genetiche significative, tranne il piumaggio di un uccello e poco altro.
A me pare che questa storia contenga più di un insegnamento. Tanto per cominciare,
cancella una volta per tutte le immagini apocalittiche legate al disastro nucleare: anziché
un deserto dove sopravvivono giusto i coleotteri, come ci hanno insegnato i film di
fantascienza e i rapporti degli esperti, il paesaggio post-atomico è invece una copia del
Giardino dell’Eden prima che Dio ci creasse. O, detto in un altro modo: gli umani
pacificamente intenti alla loro vita quotidiana sono più pericolosi per la natura
dell’esplosione simultanea di 200 bombe di Hiroshima (questa è stata la potenza di
Chernobyl). E tuttavia, per un tragico contrappasso, sono anche le sole vittime
dell’incidente: siamo noi, infatti, gli unici esseri viventi che non possono vivere a
Chernobyl, perché moriremmo di cancro e non riusciremmo a riprodurci abbastanza in
fretta per evitare l’estinzione. E anche qui c’è un insegnamento: via via che ci allontaniamo
dallo stato naturale migliorano le nostre condizioni individuali (per dire, viviamo il doppio
dei nostri cugini scimpanzè), ma peggiorano le nostre probabilità di sopravvivenza al di
fuori della sfera tecnologica in cui siamo immersi fin dalla nascita (anzi, dal
concepimento). L’apocalissi nucleare, che è poi il rovescio impaurito della nostra sfrenata
ambizione prometeica a comandare l’universo, non è affatto un’apocalissi: tutt’al più è
l’estinzione di una specie. La nostra.

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