Arturo Roberto Tortorici
Storie parallele: un uomo e la disfatta di una provincia
“La domenica è un venerdì santo. Il Natale, una quaresima.
Se devo pensare al momento più brutto, penso sia Natale. Gli altri sono tutti felici, c’è una grande gioia diffusa, tutti si fanno i regali. Senti quasi la musica nell’aria.
Io non ho nemmeno i soldi per un caffè.
Vorrei essere ricco. Prima per pagare tutte le bollette e poi fare un regalo a mia moglie. Se lo merita. Si spacca la schiena per tutti e due. Lavora da una luce all’altra. Mi dico che devo pensare positivo: così a Natale faccio un regalino, una sciocchezza solo per farle capire che ci tengo, che mi ricordo. Che, per me, mia moglie è importante. E mi sembra di essere scemo a pensare che quel niente che le ho regalato vada bene. Che anzi nella disgrazia sono fortunato che lei compie gli anni il 26: così con un regalo solo sono a posto. Poi mi rendo conto che è un ragionamento da scemo e mi prende tristezza. E ritorno a contare le ore. Quante ore ci sono di qui a 7 anni?”
Arturo Roberto Tortorici ha sessant’anni. Da tre è disoccupato. Gli mancano 7 anni giusti per andare in pensione. Per arrivare a prendere cioè, quattro soldi, che sono pochi, ma sono sempre meglio del niente di ora. “E pensare- ricorda – che nonostante abbia lavorato a lungo in nero e senza contributi ho 36 anni di marchette”
Adesso è diventato un free climber della sopravvivenza.
Si aggrappa a mani nude a ogni opportunità per tirare avanti, per trovare un’occasione con cui integrare lo stipendio della moglie che supera di poco i mille euro al mese.
“Spendiamo 510 euro di affitto. Poi dobbiamo mangiare, poi, soprattutto, dobbiamo mantenere in vita un’auto scassata che costa di assicurazioni e benzina una piccola fortuna, almeno 150 euro ogni mese. Mia moglie lavora a quaranta chilometri da casa. Alla mattina presto, quando inizia il turno, non ci sono né treni né bus. Peggio ancora alla sera. E’ un lavoro faticoso, duro. Gli orari sono massacranti, oltre ai turni c’è la fatica degli spostamenti.
E lei non sta nemmeno tanto bene di salute. Ma è la cosa più decente che abbiamo trovato e quelli che Susy porta a casa sono soldi benedetti. Senza il suo stipendio, senza la sua fatica, saremmo alla fame e senza un tetto.
Quando parte, e quando so che torna, mi incollo al telefono sperando che non chiami, che il viaggio sia tranquillo.
Una volta si è trovata paura e mi ha subito telefonato.
Io stavo male due volte: per lei che era terrorizzata e per me che non potevo andarle incontro.
Quando ti licenziano, quando perdi il lavoro non è solo la fine della tranquillità economica e sociale. Ma è la presa di coscienza che sei diventato prigioniero della tua povertà. Sei un uomo con riflessi e comportamenti differenti da quelli di prima. Un’altra persona.
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